di Giuseppe Polistena
Ad Alberto Catellani, indimenticato amico
ricordando i nostri discorsi sulle forme politiche
1- Introduzione
L’espressione “politicità sociale”, che non esiste nel lessico filosofico e politologico, indica il grado di diffusione di coscienza, strumenti e forme politiche presenti nella società civile intesa come sfera distinta dai luoghi statali o sovrastatali ovvero dalle istituzioni che hanno il potere di prendere decisioni per tutti.
Si tratta di un concetto che non è emerso a causa di una serie di mistificazioni che riguardano la genetica del “moderno” (ossia il modo in cui si sono costituite le forme politiche moderne e specialmente i partiti); l’argomento dunque è molto vasto e merita analisi più approfondite. In questa sede mi limiterò ad un compendio. (1)
Comincio col dire che la “politicità sociale” acquista significato nell’epoca moderna perché solo a partire da questa epoca la sfera sociale, identificata con le varie accezioni della parola “popolo”, diventa rilevante favorendo così l’affermazione delle teorie e delle pratiche liberal-democratiche le quali attribuiscono una funzione politica alla società civile. Nel mondo antico la politica riguardava la sfera del governo (2) e il coinvolgimento della sfera civile o del popolo, che pure si era concretizzato in alcune aree, era marginale o
fortemente contestato. Le cose cambiano nei secoli tardomoderni quando si afferma il mito democratico attraverso lo spostamento della sovranità dalla sfera delle istituzioni del potere a quella del popolo che adesso può agire politicamente: le modalità con cui si esplica questo “agire” indicano la presenza, la natura e il livello della politicità sociale. Semplificando possiamo dire che la “politicità sociale” riguarda l’attività politica dei cittadini in quanto tali mentre la “politicità istituzionale” riguarda l’attività dello stato o delle
istituzioni che prendono decisioni per tutti.
La democrazia, in tutte le accezioni che vengono conferite a questo vocabolo, implica il coinvolgimento politico della sfera designata dalle nozioni di gentepopolo-società-cittadinanza. A questa sfera viene assegnata una funzione politica che si concretizza nel potere di designazione (elezione) dei “governanti”. La narrazione dominante dice infatti che i cittadini scelgono, con l’atto politico del voto, i loro rappresentanti. In realtà la funzione politica del popolo, ossia la sua “politicità”, non ha mai avuto una teorizzazione e un’attenzione adeguate e non sono stati mai individuati per essa parametri di
riconoscimento o di monitoraggio. In altre parole il problema della politicità sociale non è mai emerso perché il diritto di votare è stato considerato condizione sufficiente: se esiste questo diritto allora esiste una politicità sociale. Si tratta di un atteggiamento grossolano perché il suffragio universale, sebbene sia uno dei grandi diritti della modernità, acquistato attraverso una lunga epopea, non può esaurire tutta la politicità sociale perché non dice nulla sul livello e sulla qualità dei processi che portano al voto il quale è solo il momento finale di un percorso, mentre la politicità sociale si definisce attraverso tutto il percorso. La teoria politica non ha dedicato molte analisi ai processi che determinano il voto ed è per questo che possiamo affermare che la politicità sociale costituisce un problema serio perché è ovunque un ambito non sviluppato, sia a livello teorico che a livello pratico. Lo vediamo attraverso l’aumento del disinteresse per le elezioni e per le questioni istituzionali: questo disinteresse rappresenta la crisi delle ambizioni democratiche del mondo moderno perché la mancanza di una concreta politicità sociale impedisce alla
società civile di controllare efficacemente le istituzioni dello stato e renderle più funzionali attraverso l’utilizzo, in chiave politica, delle immense risorse umane di cui è dotata. Una politicità sociale asfittica, come quella attuale, impoverisce i sistemi politici rendendoli altrettanto asfittici e nel lungo periodo crea giganteschi problemi all’intera società. Per intendere il senso e il peso di questo problema è il caso di ricordare che la società civile si esprime in genere con atti non politici (atti economici, sociali, culturali, affettivi ecc.) mentre la sua “politicità” non è offerta gratuitamente perché implica uno sforzo culturale,
intellettuale e umano di chi, meritoriamente, se ne occupa. (3) Dunque l’accezione grossolana e mistificante, assunta dalla narrazione ufficiale, implica l’idea che se le elezioni sono “libere” e se “tutti” possono votare, la società civile ha raggiunto un livello ottimale di democrazia e il problema di una politicità sociale non si pone. L’esistenza di libere elezioni e di un pluralismo partitico sarebbero la condizione, ma anche la prova, della presenza di una politicità sociale. I meccanismi reali ci raccontano però un’altra storia e mostrano un grande vulnus nel sistema che né la filosofia né la scienza
politica, hanno saputo individuare.
2- Il principale meccanismo mistificante
Cerchiamo allora di comprendere i reali fattori che entrano in gioco e che
impediscono il corretto sviluppo della politicità sociale.
La formazione dello stato moderno, fenomeno cruciale degli ultimi secoli, con
la connessa creazione di immense burocrazie, ha reso necessaria la distinzione
tra la sfera statale e quella civile, distinzione che non si pose e non fu chiara
prima della fine del settecento (4) E’ infatti necessario distinguere l’ambito
delle decisioni imperative, cioè delle istituzioni che hanno il potere (e il dovere)
di prendere decisioni per tutti, dalle gigantesche società civili sottostanti: si
tratta di ambiti diversi, con collegamenti complessi e definiti in modo piuttosto
improprio come “stato” e “società”. In epoca moderna ad uno di questi due
poli, cioè alla sfera della società civile, è stata conferita la sovranità ma non il
potere di prendere decisioni per tutti che è il tipico potere di istituzioni
specifiche dello stato. La democrazia implica una “politicità” della sfera sociale
concepita da un lato come azione del sovrano (popolo) e dall’altro come
osmosi e controllo della sfera decisionale in cui si concentra un potere
pericoloso definito nel passato col termine “leviatanico”. Tuttavia, come
abbiamo visto, questa politicità non viene attivata a causa di una
amplificazione mistificante delle istituzioni che dovrebbero garantirla e cioè le
elezioni libere e i partiti;la gravità di questa situazione consiste proprio nel
fatto che esiste una copertura mistificante di istituzioni che nascono
effettivamente come strumenti di politicità. In altre parole la politicità sociale è
affossata da chi dovrebbe svilupparla. Dobbiamo capire come questo possa
accadere! Il principale elemento mistificatorio è annidato nella struttura del
partito che, a tutte le latitudini e indipendentemente dai profili ideologico-programmatici,
si dichiara e si pone come “esterno” alla sfera dello stato
(quindi “medio” e “sociale”) senza esserlo nella realtà. Si tratta di una vera
“finzione” passata sotto silenzio perché la fondamentale separazione tra stato\
società non viene applicata ai partiti per cui i loro gruppi dirigenti assumono
ruoli statali pretendendo, nel contempo, di mantenere ruoli apicali dentro il
partito di provenienza. In questo modo la politicità sociale viene
silenziosamente mutilata senza essere rinnegata. La mistificazione sta nel fatto
che un organo della società civile organizzata, cioè il partito, viene
surrettiziamente occupato da persone fisiche che rappresentano il mondo dello
stato. Non si tratta di un organo qualsiasi: il partito rappresenta lo strumento
cruciale con cui la società civile si assume il compito, attraverso le elezioni, di
“riempire”, con persone fisiche, le istituzioni dello stato; per questo i partiti
sono essenziali per il sistema politico democratico. Se la società civile, che si organizza in partito, non sarà libera di valutare e giudicare, perché quello strumento (il partito) è presidiato da persone che stanno già nelle istituzioni, viene a cadere un pilastro della politicità sociale e un momento cruciale del percorso democratico verrà a mancare. (5) Il danno è grave ma poco evidente e sembra incredibile che questa decisiva svista si sia prodotta ma se si conoscono tutti i dispositivi del sistema e specialmente la genetica storica del partito, questo grave fenomeno può essere spiegato. In ogni caso si tratta di un campo scarsamente indagato tanto è vero che oggi non esiste una coscienza di questo fatto e quindi non esiste alcun tentativo di contrastarlo: in altre parole non troviamo analisi sulla condizione ibrida dei partiti moderni né studi sulle conseguenze delle pretese del partito di essere insieme “stato” e “società civile”. La narrazione dominante afferma che sono i cittadini-sovrani a scegliere i loro rappresentanti attraverso le elezioni ma non dice che i cittadini che formano, decidono e presentano le liste elettorali abitano già le istituzioni dello stato e non provengono dalla società civile. I partiti non sono più enti medi sociali ma pezzi di stato che usano una maschera sociale. Per questo motivo Gaetano Mosca aveva affermato che non sono i cittadini a scegliere ma i politici a farsi scegliere. Se non si coglie questo meccanismo attraverso
un’analisi empirica della struttura partitica, non si riuscirà a comprendere il tallone d’Achille presente nei sistemi politici moderni e la patologia che ne discende. Per coglierlo però occorre rivedere il rapporto tra società e stato e individuare alcuni dispositivi che, associati tra loro, costituiscono le forme in
vigore le quali così come sono non possono garantire un sistema politico
funzionante. Riformulo questa asserzione in modo più chiaro: i sistemi politici
moderni non possono funzionare correttamente a causa delle “forme” che li
costituiscono.
Cominciamo con la situazione schizofrenica dei partiti: essi, per una parte, si
dichiarano e restano formalmente esterni al complesso istituzionale dello stato
ma per la parte più significativa e potente, quella di chi li dirige, entrano
pienamente nelle istituzioni pubbliche creando una situazione ibrida che altera
la normale dialettica tra gli ambiti, cioè tra la società e lo stato. La complessità
di questi processi, unita alle sottostanti, e spesso oscure, dinamiche di potere,
costituisce un elemento della loro incomprensione. Per questo vanno analizzati
con maggiore accuratezza.
Le elezioni consentono a gruppi di cittadini, riuniti in partiti, di passare il
confine che distingue la società civile dallo stato. (6) Tali cittadini, eletti con un
atto politico del “popolo”, vengono chiamati genericamente “governanti” ma,
come abbiamo detto, una volta entrati nelle istituzioni dello stato essi
mantengono il piede nei partiti di provenienza con ruoli direttivi. Questo
cumulo di funzioni determina la perdita della fisiologicità del sistema perché il
doppio ruolo annulla di fatto il flusso di politicità sociale che va dal partito allo
stato: un pezzo dell’ingranaggio non funziona perché non è più “socialità” ma
“statalità” ma si tratta di una “statalità” che si presenta come “socialità” ed è
qui che si sviluppa una pesante mistificazione di cui soffrono tutti i sistemi
politici. In questo modo le istituzioni non interagiscono col resto della società
ma si separano da essa perché il canale principale che determina quel flusso
viene ostruito dalla presenza di elementi che di fatto non appartengono più alla società civile (7). Controllori e controllati si identificano. In altre parole uno dei
cardini della democrazia, cioè la funzione politica dei cittadini, viene menomato
e il sistema perde coerenza con le conseguenze che ne derivano prima tra cui,
il graduale allontanamento, (empiricamente rilevabile), dei partiti dalla società
di cui dovrebbero far parte. In questo contesto le elezioni stesse, anche se
sono libere ed esenti da brogli, perdono significato perché non sono più
espressione della società civile ma strumenti di parti dello stato che trovano
nei partiti la loro maschera sociale.
Ovviamente le persone fisiche che guidano i partiti non si occupano e non
evidenziano questo problema. Essi ritengono di poter cumulare entrambi i ruoli
che considerano identici: “faccio politica sia nel partito che nelle istituzioni
statali, tanto le idee e i progetti sono gli stessi. Posso quindi dirigere un partito
mentre faccio il parlamentare o il ministro!”. La contraddizione di
rappresentare insieme la parte del partito e il tutto dell’istituzione non si vede
o si copre abilmente come si copre anche la difficoltà pratica di svolgere
contemporaneamente funzioni così impegnative. (8) Manca una fondamentale
acquisizione culturale: la differenza di forma tra il partito, che sta in un
universo plurale e sociale, e l’istituzione statale che è uno strumento unico a
disposizione di tutta la società. E’ del tutto folle pretendere che singole persone
fisiche possano unificare questi due momenti e tenerli insieme ma questa è la
normalità per cui non si è mai indagato sulle conseguenze di questa situazione
la quale dà luogo ad un altro fenomeno che dobbiamo studiare attentamente: il
professionismo politico. Tutte queste persone infatti considerano la politica
come una professione, attraverso l’equivoco della professionalità (9) e
intendono svolgere questa professione possibilmente per tutta la vita, questo
pone un problema di natura pratica: per essere politici di professione occorre
cumulare il ruolo partitico e quello statale cioè mantenere il controllo del
partito. Si tratta di un accorgimento pratico, infatti una persona fisica, che
aspira a diventare politico di professione, sa che deve essere eletto e poi
rieletto, ma per ottenere questo risultato occorre attivare due differenti
processi, entrambi complessi e difficili: produrre consenso, attraverso una
comunicazione indirizzata ai cittadini che votano, e mantenere un ruolo
apicale, o comunque importante, all’interno del partito. Si tratta di due
operazioni vitali per i politici che non hanno nulla a che vedere con il lavoro
istituzionale che devono svolgere, il quale viene snaturato sensibilmente
creando un persistente problema alle istituzioni e quindi all’intera società. Le
istituzioni infatti perdono “libertà” e “funzionalità” dal momento che vengono
orientate (strumentalizzate) verso una funzione diversa da quella propria. In
tutto il mondo dove si vota e dove esistono i partiti, il sistema è articolato in
questo modo patologico con differenti indici di gravità dovuti alle circostanze
storiche e culturali dei vari paesi.
Un’analisi complessiva che colleghi i due processi che ho descritto non esiste.
Certamente si conosce e si critica la ricerca ossessiva del consenso, che oggi
viene ricercato con le tecniche più avanzate, ma non si mostra il collegamento
patologico con gli altri elementi del sistema, in particolare con la formazione di
un gruppo professionistico di persone che ha come unico obbiettivo quello di
autoconservarsi. Che la politica non possa costituire una professione qualsiasi
è un’asserzione tanto vera quanto ignorata. Non si nota infatti la singolarità di
una professione siffatta che non discende da una competenza tecnica ma dai
voti che si riescono a raccogliere. Tutto questo è collegato alla doppia natura
del partito politico che pretende di essere sia società che stato. Questa
patologica doppia natura non è stata mai identificata e descritta nonostante
un’immensa letteratura che riguarda i partiti. La somma di questi fattori
(professionismo politico e natura ibrida dei partiti) dal lato dello stato crea una
patologica deviazione del lavoro istituzionale, dal lato del partito determina la
particolare “forma” in vigore, che distrugge la sua politicità sociale perché,
come abbiamo visto, le persone che lo dirigono diventano e si comportano
come “stato”. Un terzo effetto di questo sistema, anch’esso inesorabile, è il
rapporto innaturale che si determina tra la dimensione politica, che dipende
dalle elezioni, e la strutturazione burocratica delle istituzioni fondata sulla
professionalizzazione dei funzionari e sui concorsi pubblici. Diventa infatti
necessario un tacito “patto scellerato” tra politici e burocrati perché i primi
avranno bisogno dell’appoggio incondizionato dei secondi per guidare le
istituzioni perché impegnati perennemente su altri fronti quali il controllo del
proprio partito e il consenso. Questo è il binario su cui, con piccole variazioni, si
muovono i sistemi politici occidentali, binario che configura una patologia dagli
effetti lenti ma inesorabili: le istituzioni vengono “ingessate” perdono elasticità
e assumono un forte valenza conservatrice diventando forme rigide e non
strumenti al servizio dei cittadini. In un contesto simile l’istituzione viene
utilizzata dai politici solo per la sezione che produce consenso e la burocrazia,
già fondamentale per il funzionamento degli immensi apparati statali, acquista
un potere ulteriore e un ruolo non fisiologico perché non si confronta in modo
normale con la parte politica. La patologia costituita da questi tre differenti
processi e dalle forme contraddittorie che ne derivano, è molto grave ma
assolutamente sotto traccia perché la scienza politica non l’ha individuata. Il
problema dunque è metodologico; sembra infatti che gli studiosi della materia
si siano concentrati di più sugli eventi e sui comportamenti rispetto alle forme
politiche. In ogni caso questi processi, tutti rilevabili empiricamente, tolgono al
partito il suo carattere più importante: quello di essere “medio” quindi fattore
di politicità sociale e di democrazia. Non esiste ricerca, a quanto ne so, che
abbia analizzato gli effetti della concentrazione, nelle stesse persone fisiche, di
forme e ruoli così differenti. Qualche spunto contemporaneo (10) si riduce ad
un’intelligente intuizione ma non tocca il problema della politicità sociale che è
la reale vittima della concentrazione di quei due ruoli (partitico e statale).
La forma in vigore configura una surrettizia catastrofe democratica e un danno
sociale difficilmente quantificabile (11). Perché usare toni così drammatici per
descrivere questo fenomeno? Perché l’inesistenza di una reale e concreta
politicità sociale rende disfunzionali i sistemi ben prima delle persone, dei
comportamenti e degli eventi contingenti, eliminando il fattore di controllo più
importante e con esso grandi risorse umane che non vengono destinate alla
politica. Di questi processi ci sono scarse tracce nell’analisi politologica.
Esistono però corollari empirici che vari studiosi hanno evidenziato senza
collegarli alla forma generale che sto descrivendo: uno di questi è l’infima
considerazione che i partiti hanno nell’immaginario sociale perché il cumulo dei
ruoli li mostra per quello che sono: macchine per fabbricare carriere e potere. I
partiti non vengono considerati come espressione di politicità sociale perché
non lo sono nei fatti. In questo modo la dialettica politica si atrofizza perché
diventa gergo professionale di un ceto che occupa le istituzioni statali: i
cittadini non capiscono quel gergo si amplia così il distacco, che molti autori
hanno notato, tra società e stato (12). Altri autori hanno parlato di
consociazione (13) una situazione molto diffusa che va collegata alla “forma”
che istituisce la categoria dei politici di professione legati da comuni interessi
( ad es. la propria conservazione) che prescindono da ideologie e programmi. In
altre parole esiste una “forma” non indagata che struttura un’area in cui i
politici di professione e gli aspiranti tali concentrano la politica nel livello
istituzionale eliminandola dalla società che resta sguarnita di strumenti politici.
Questa “forma” riguarda la struttura bifronte dei partiti (14) in tutto il mondo.
Quali tipi di riforme occorre realizzare per evitare la situazione che sto
descrivendo? In primo luogo occorre una coscienza che registri e prenda atto
delle patologie descritte, in secondo luogo si può pensare a riforme possibili di
vasta portata e di struttura fine, ispirate dalla necessità di rigenerare
un’autentica politicità sociale: per realizzarle occorre diffondere presso il
grande pubblico, la conoscenza dei meccanismi in vigore da alcuni secoli che
hanno caratterizzato la formazione dello stato moderno.
3- Partiti di nuova concezione: medi, socializzati e
costituzionalizzati
La difficoltà di concepire le riforme necessarie per un sistema politico più
evoluto viene dal fatto che siamo calati in una “forma” che appare naturale e
come tale non passibile di cambiamenti; non riusciamo infatti a concepire un
partito obbligato per legge a restare un ente medio con una struttura operativa
totalmente esterna alle istituzioni pubbliche. Come faranno infatti i dirigenti, il
capo o addirittura il fondatore di un partito, a perdere ruolo e controllo della
loro creatura una volta eletti, ovvero una volta entrati nelle istituzioni dello
stato? La cosa appare di difficile realizzazione e per molti è del tutto assurda.
Non essendo emerso il problema della politicità sociale del suo livello, del suo
valore e dei metodi di monitoraggio per controllarne la qualità, l’idea di far
restare “medio” il partito cioè ancorarlo alla società con accorgimenti
costituzionali non si è neanche profilata. (15) Il fatto che i partiti di destra,
centro e sinistra adottino il medesimo schema non fu visto come un problema
generale della politica da risolvere con l’inventività necessaria, ma come il
fatto provato che le cose non possono andare diversamente. Quindi appare
assurdo ciò che è necessario: salvaguardare la medietà del partito leggi di
protezione auspicabilmente costituzionali volte a garantire una concreta
politicità sociale.
La centralità di questo punto è tale da definire il perimetro di ciò che oggi può
essere indicato come “ conservazione”: il mantenimento delle forme in vigore.
Occorre ricordare che un discorso basato sulle forme non è accettato, specie
dai politici di professione che competono tra loro nella ricerca di voti sulla base
di contenuti particolari (tasse, giustizia, emigrazione ecc.) che sono le
preoccupazioni più visibili dalla gente ma il tema delle forme, che sarebbe
strategico per affrontare adeguatamente quei problemi, non viene ritenuto
degno di attenzione. La riforma dei partiti è dunque quella più importante per
le conseguenze ad essa associate che riguardano la politicità sociale ma è
anche quella meno sentita e meno appassionante da parte dell’opinione
pubblica. Un cambiamento di sistema è possibile solo se si comprende la logica
che lo rende necessario. Inoltre un tale cambiamento che mira alle “forme”
riguarda processi lenti, che non danno frutti immediati, non scaldano i cuori e
non si percepiscono con la stessa urgenza dei problemi immediati che si vivono
sulla propria pelle. Non è facile dunque cambiare sebbene non bisogna perdere
le speranze anche perché se non si riuscirà a fare i cambiamenti necessari,
sarà il tempo ad imporre i cambiamenti perché farà esplodere le contraddizioni
presenti nel sistema ma di solito i cambiamenti imposti dal tempo sono più
dolorosi perché nessuno li ha previsti o voluti. Credo che si debba fare una
paziente opera culturale cominciando con la spinta per una nuova stagione
costituzionale che si occupi specificamente dei partiti, ossia della società civile.
La storia costituzionale, nella sua prima stagione, prescinde completamente
dalla società e quindi dalle sue forme organizzate, per essa i partiti non
esistono e questo va considerato un limite originario. Nella seconda stagione,
che è quella novecentesca, anche a seguito di drammatici fatti storici, una
larga fetta di socialità viene inserita nel tessuto costituzionale ma essa è
concentrata sui diritti. Le costituzioni non si avventurano nell’area complicata
del partito perché non sono interessate alla politicità sociale. Il
costituzionalismo del futuro ha un grande compito: inserire nelle sue maglie i
partiti politici senza equipararli alle istituzioni dello stato che sono istituzioni di
tutti; I partiti infatti, sono per essenza, di parte e coinvolgono solo un settore
della società, anche se occorre ricordare che se i partiti sono “politici” si
occupano e si rivolgono a tutta la società: si tratta dunque di definire e
comprendere questi differenti livelli trovando per essi una collocazione
costituzionale che renda complessivamente fisiologica la difficile attività della
politica. Senza una disciplina costituzionale, il partito, grazie alle specifiche e
oggettive forme ibride che assume, diventa il luogo dove si annida un potere
improprio che destabilizza il sistema. In molti paesi i partiti sono diventati de
facto più importanti delle istituzioni formali ma si tratta di un’importanza fragile
che deve necessariamente mediare con le parti forti della società perché il
sistema si basa sulla logica del consenso che favorisce la corruzione (16). La
mancata costituzionalizzazione, evitata come prova della natura sociale del
partito, si è rivelata il cavallo di troia della statalizzazione.
In realtà alcuni autori ( Mortati, Romano e altri) avevano proposto al tempo
della costituente di considerare i partiti organi di rilevanza costituzionale,
sottoponendoli a regole stringenti, ma questa strada fu ostacolata con
argomenti ad ampio tasso mistificatorio. In ogni caso la vasta gamma delle
conseguenze del cumulo dei ruoli viene sistematicamente ignorata come i tre
processi patologici che ho illustrato più sopra. La politicità sociale può e deve
essere sviluppata da una legge di struttura fine, possibilmente costituzionale,
che impedisca alle persone fisiche che si candidano, di cumulare due ruoli così
diversi. C’è un modello fisiologico da realizzare, ben diverso da quello in vigore.
In esso il partito è organo con funzione costituzionale (come disse Mortati che è
ben diverso dall’essere un organo costituzionale: questa differenza ricalca la
differenza oggettiva delle forme che sono coinvolte) che resta sempre un ente
medio, si presenta alle elezioni e attua procedure democratiche per selezionare
persone fisiche che, entrando nelle istituzioni di tutti, diventano per un tempo
stabilito (ma non per sempre) i governanti di tutti. Nel momento in cui i
candidati proposti dal partito vengono eletti, il loro lavoro si svolge
esclusivamente nella sede istituzionale e ogni incarico o responsabilità partitica
cessa del tutto. Sarà una legge a regolamentare questi processi, una legge che
non esiste in Italia e in nessuna parte del mondo occidentale, una legge che
riconosca la natura particolare dei partiti e la loro ampia libertà ma senza farli
diventare pezzi di stato. Questa legge che sarà una legge sulla rappresentanza,
non potrà eludere i limiti dei mandati istituzionali senza i quali sarà impossibile
eliminare il professionismo politico. Questa legge potrebbe adottare il motto:
più professionalità meno professionismo.
Dunque un ministro, il sindaco di una grande città o un parlamentare devono
svolgere il loro lavoro senza avere ruoli partitici e porsi sotto il giudizio e il
controllo della società civile organizzata nei partiti che devono essere reali enti
medi. Chi entra nelle istituzioni dello stato rappresenta tutti perché le sue
decisioni valgono per tutti e non può, nello stesso tempo, rappresentare una
parte, cioè un partito. L’obiezione secondo cui un eletto ha comunque un
partito di provenienza indica una concezione involuta della politica, che non
tiene conto delle forme oggettive e delle inesorabili conseguenze legate al
doppio ruolo. Ogni eletto deve avere un programma, una visione e anche un
partito di riferimento e deve perseguire le proprie idee che in una democrazia
non possono che essere molteplici e variegate: non importa se il tal ministro o
il tal presidente ha idee differenti da quelle mie, la cosa importante è che
svolga il suo lavoro istituzionale con senso politico senza avere, nello stesso
tempo, una posizione da gestire e difendere dentro il partito assieme all’
ossessione del consenso che è funzionale ad una presenza nelle istituzioni a
tempo indeterminato, perché queste preoccupazioni innescano una serie di
conseguenze deleterie sul lavoro istituzionale togliendo libertà, efficacia e
funzionalità all’istituzione stessa. La legge dunque deve disciplinare i partiti e i
loro ruoli apicali al fine di favorire e sviluppare una politicità sociale, cioè la
materia prima della democrazia che scarseggia in tutto il mondo. In altre
parole, è interesse della collettività che un ente medio sia diretto da persone
che non occupino cariche politiche perché in tal caso la medietà viene dissolta.
Il modello qui esposto rende coerente il sistema politico a trazione democratica
e potrebbe contribuire a riavvicinare la società civile alle istituzioni.
4- La riforma dei partiti è condizione necessaria ma non
sufficiente
Sebbene la riforma strutturale del partito (e quindi la sua
costituzionalizzazione) sia decisiva per lo sviluppo di una politicità sociale non
si tratta dell’unico fattore necessario per creare supporti concreti per questo
tipo di politicità: l’ingegneria istituzionale non risolve tutto! Senza il
coinvolgimento della scuola e della stampa nella preparazione politica dei
cittadini non si potrà raggiungere il livello che garantisce il buon funzionamento
del sistema. Nelle pagine precedenti ho auspicato l’avvento di partiti che
recuperino in toto la loro “politicità” ma tutto resterebbe asfittico senza il
concorso di un’alfabetizzazione della cittadinanza fornita dalla scuola e
dall’informazione. Non sto inseguendo un’utopia da anima bella! L’azione
politica, per la sua complessità, non potrà mai interessare e coinvolgere tutta
la popolazione. Questo è un dato realistico che deve essere acquisito perché
conforme alla nostra struttura antropologica, tuttavia è decisiva la percentuale
di coloro che si interessano alla società con ampiezza di vedute lungo lo spazio e il tempo, cioè con visione politica. Aumentare il numero di queste persone è vitale per la politica perché essa ha bisogno di essere arricchita da risorse umane che stanno fuori dall’area istituzionale. Tali risorse oggi sono emarginate dalle forme in vigore che nei fatti ostacolano la partecipazione della cittadinanza. In tutti i paesi occidentali, la frazione di popolazione capace di avere visioni politiche è troppo esigua ma come abbiamo visto è abnormemente “professionalizzata” cioè concentrata solo in una parte dello spettro sociale e caratterizzata da una forte tendenza autoriproduttiva che crea l’area separata del ceto politico all’interno di una società. Lo sviluppo di una politicità sociale tra cittadini di ogni professione è una condizione necessaria per un sistema democratico e per aumentare quella frazione di popolazione capace e disponibile per comportamenti politici. E’ necessario per questo che la scuola e la stampa aiutino a pensare politicamente che significa pensare per tutti senza esibire le granitiche verità (17) che portano le persone fuori dalla politica esattamente nell’area sacrale da cui siamo fortunatamente usciti. Non affronto qui il tema dei programmi scolastici di educazione politica che non esistono da nessuna parte, perché il discorso sarebbe lungo, cito solo la stampa dicendo che è necessaria un’informazione pubblica e plurima con professionisti di varie tendenze resi liberi con il sorteggio in modo che non debbano rendere conto a nessuno (18). A questi professionisti verrà affidato il compito, tutt’altro che facile, di fornire un’informazione ricca e credibile a spese di tutti i cittadini perché avere una informazione libera e plurima serve all’intera società. Il complesso di queste riforme è ampio e difficile ma sarà la grande opera che le prossime generazioni metteranno in campo se si svilupperà una chiara coscienza di questi problemi.
Finisco dicendo che il rinnovamento del sistema politico si imporrà prima o poi perché le forme in vigore produrranno, a causa delle interne patologie, momenti critici di differente gravità in tempi non prevedibili. Ho indicato grosso modo le tre aree che devono interessare le riforme: il partito, la scuola e la stampa. Saranno coloro che sono adesso piccoli a dovere fare queste riforme fronteggiando i problemi che emergeranno, ma chi oggi è adulto può preparare la strada attraverso uno studio critico dei sistemi vigenti e la diffusione della relativa consapevolezza.
NOTE
(1) Lascio come intuitiva l’importanza della “politicità sociale” che può consentire alla politica di utilizzare le energie della società civile in misura ben maggiore di quanto accada oggi. La tesi di fondo è che una politicità sociale adeguata e costituzionalmente garantita, diventa essenziale per i sistemi politici.
(2) La politicità espressa dalle istituzioni pubbliche è di natura prescrittiva o imperativa ed è ben diversa dalla politicità sociale la quale in modo grossolano e inadeguato è stata storicamente identificata ora con l’opinione pubblica ora con la mera esistenza dei sistemi elettorali.
(3) Anche se non posso sviluppare un discorso sull’aristotelismo faccio notare che con l’affermazione che l’uomo è “animale politico” Aristotele condanna la politica ad essere sempre presente nella società, cosa che dobbiamo negare. Le conseguenze dell’aristotelismo politico, che è culturalmente incorporato nelle mente degli occidentali, sono numerose e rilevanti.
(4) L’autore che per primo pose e propose la distinzione è lo scozzese A.Ferguson
(5) Questo meccanismo nei paesi totalitari produce il doppio stato dove l’unico partito prende il controllo di tutta la macchina statale e con essa si identifica. Si tratta della situazione estrema rispetto a quella dei paesi
occidentali dove esiste il pluralismo partitico ma anche in questi ultimi l’identificazione di stato e partito avviene nella forma pluralizzata di una consociazione più ampia e dialettizzata. In altre parole anche i paesi
occidentali identificate con le democrazia più evolute si pongono in una zona non fisiologica dello spettro politico.
(6) Questo passaggio non è accompagnato dalla consapevolezza critica della differenza di livello: le istituzioni dello stato non sono pluralizzate come i partiti ma sono unitarie secondo le varie costituzioni, sono dunque strumenti unici di tutti e per tutti i cittadini. La dialettica partitica cessa quando si entra
nelle istituzioni ma si portano avanti i progetti (facenti parte del programma originario del partito) tenendo conto della nuova situazione in cui la persona fisica, ora eletta, si viene a trovare. Anche se questa situazione appare inapplicabile rispetto al parlamento (dove la dialettica è ammessa) a mio avviso coinvolge anche il parlamento. Di sicuro riguarda pienamente il governo.
(7) In questo caso la difficoltà delle persone di cogliere il cambiamento di forma cui sono andati incontro consiste nel fatto che una persona fisica resta sempre un individuo con radici nella società senza cogliere che la forma politica che va a dirigere lo pone in un livello diverso perché si riferisce a tutta la società e non solo all’ambito dei suoi elettori.
(8) Esiste anche la difficoltà pratica di cumulare funzioni così impegnative. In generale la priorità resta quella del partito ma la questione delle difficoltà pratiche del cumulo non sono rilevanti perché il problema non è questo ma la dissoluzione della politicità sociale
(9) Confondendo professionismo e professionalità si dà per scontato che per realizzare la seconda occorre che ci sia il primo. Cosa smentita dai fatti, specialmente in Italia dove i politici di professione hanno dovuto molte volte cedere il campo a non professionisti politici come Ciampi, Monti, Conte, Draghi ecc. segno tangibile di un’incapacità di gestione del sistema.
(10) Luigi Ferrajoli è il solo intellettuale che nei suoi ultimi libri stabilisce la necessità della differenza tra il ruolo partitico e quello statale.(Vedi “la costruzione della democrazia” Laterza 2020)
(11) La disfunzionalità istituzionale può avere un numero enorme di fattori contingenti ma se essa è sistemica perché radicata strutturalmente la bassa produttività istituzionale diventa la normalità a cui i cittadini si abitueranno. Il cattivo funzionamento delle istituzioni viene percepito e vissuto come un destino.
(12) Hirschmann e l’autore che ha analizzato il distacco dal cittadino dalle istituzioni. Un primo obiettivo politico sarebbe quello di non creare un ceto cosa che può realizzarsi con due importanti pratiche:i limiti dei mandati e il ritorno alla vita civile.
(13) P. Maier ha scritto pagine importanti sulla consociazione dei partiti a tutte le latitudini
(14) Naturalmente nelle società dove non esistono i partiti la situazione è ancora peggiore perché il potere è detenuto senza mediazioni e non è soggetto ad alcuna limitazione
(15) In questo processo c’è da considerare la nascita concreta del partito come parto non voluto. Il partito infatti è stato escluso dalle grandi dottrine politiche che non lo contemplavano e quindi quando è nato non aveva legittimazione teorica e la sua medietà non è comparsa come valore.
(16) Sarebbe folle sostenere che esiste un sistema politico capace di eliminare la corruzione che resterà sempre una possibilità ma altra cosa è consentire l’esistenza di una forma che la favorisca come succede con la ricerca ossessiva del consenso.
(17) E’ inquietante vedere in questi anni che in paesi come l’Italia e gli Usa nascano giornali e social con il nome “verità”, Sembra che l’esempio storico della Pravda in Russia non abbia insegnato nulla.
(18) L’esempio negativo di una stampa non libera che deve rendere conto è quello della rai che sebbene sia ben strutturata in tre differenti reti obbedisce ad una commissione parlamentare di vigilanza dove i partiti
miseramente osservano quanti secondi un leader ha avuto rispetto ad un altro.