Forse Donald Trump non ha letto Carlo Levi, ma la semina alluvionale di media e social degli ultimi decenni è entrata nel palazzo del potere e non più solo metaforicamente. Mi riferisco all’assalto al palazzo, d’inverno Congresso Usa a Washington il 6 gennaio 2021.
Altri fatti.
Da pochi mesi, ma preceduti di qualche anno dall’Ue, le autorità Usa hanno messo sotto pressione i colossi di internet.
Mentre questo accade in occidente, contemporaneamente la Cina ha bloccato Alibaba, altro colosso web, in un’ulteriore espansione verso la finanza.
La transizione digitale da tempo è incorporata nella finanza ed ora si sta saldando a cultura, politica, democrazia: il digitale è sempre più la portante comune delle nostre vite, è necessario per tutto e senza esclusioni.
Incide profondamente anche nel diritto: un programma informatico obbliga in modo assai più cogente di ogni legge, per restare al facile ricordo le difficoltà di registrarsi su una od altra app.
Incide anche nella politica e nella democrazia: gran parte della campagna elettorale statunitense è avvenuta grazie al digitale, col digitale, nel digitale. Accade anche in Italia, dove 1/3 degli eletti è in Parlamento per selezione prevalentemente digitale.
Com’è regolato il digitale? Il cittadino sa leggere le regole digitali? Anche se sapesse leggerle, è in condizione di farlo?
Sempre più spesso, sempre più incisivamente, le forme viaggiano in digitale ed il mezzo di trasporto finisce per nascondere la loro essenza, il mezzo evolve da messaggio a (apparenza di) verità e ciò che appare spesso diventa essere.
Sotto, ma ancora più sostanziale c’è l’origine del problema: vive in ognuno di noi e la parola lo porta all’esterno. Il problema di oggi è avvicinare eletti ed elettori, ricordando che politica è risolvere problemi e che spesso è bastato inventarli e/o illudere di averli risolti.
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