Guardiamo alle forme, una realtà concreta che sfugge alla comprensione comune
Ci sono stati momenti della storia in cui popoli e nazioni hanno fatto scelte avventate e disastrose che hanno determinato guerre, catastrofi e la morte di milioni di persone. Si trattava di decisioni che avevano una negatività evidente ma che venivano compiute ugualmente, perché?
Esiste una narrazione vincente, diffusa sia a livello popolare che accademico, che privilegia il cosiddetto “individualismo metodologico”, una teoria secondo cui tutto ciò che accade nella società è imputabile alla volontà individuale e quindi al comportamento delle singole persone.
Nelle sue forme estreme, questa narrazione si spinge a sostenere che non esiste alcun ente collettivo come società, eserciti, gruppi, ecc., perché in realtà, dietro quelle parole, ci sono solo individui e quindi l’analisi va fatta a livello individuale.
Questa spiegazione è la negazione teorica di ciò che sosteniamo nel gruppo “Forme e riforme” dove si afferma che, assieme all’esistenza di individui, esistono ulteriori entità, ontologicamente reali, come lo è una pietra, che chiamiamo “forme” (altri studiosi le chiamano strutture, funzioni, contesti ecc.). Riconosciamo cioè una pluralità di forme diverse che creano un panorama ipercomplesso. Allo stesso tempo, ci distinguiamo dallo strutturalismo classico, non escludiamo infatti gli individui, come facevano ad es. Foucault o Levi-Strauss, ma indaghiamo il loro peso reale.
Ma cosa sono le forme rispetto alla società?
Pur evitando una risposta filosofica che ci porterebbe lontano, mi limito ad affermare che le forme sono entità reali, che si determinano all’interno di qualsivoglia società e che esercitano una forza condizionante sugli individui. Di conseguenza, l’azione individuale è influenzata, dall’esistenza e dal potere di queste forme.
La tesi è semplice: nella società c’è un’enorme ricchezza, infatti, oltre alle singole persone, gli individui, i mattoni fondamentali, ci ci sono le forme, una moltitudine di forme che sono quasi sempre dominanti rispetto alle persone. Pensiamo alla forma linguistica: gli esseri umani vengono al mondo sentendo parlare una lingua e imparano inevitabilmente quella che ascoltano, la lingua madre. Non hanno la possibilità di impararne un’altra, se non quella in cui sono immersi. Ci sono le chiese, le mafie, i gruppi finanziari, le associazioni di beneficenza ecc. Queste sono forme, cioè “grumi sociali”, che hanno la stessa realtà delle persone, ma non sono con esse identificabili, come vorrebbe l’individualismo metodologico.
La tesi suggerita da “Forme e riforme” è la seguente: lo studio della società, se ridotto agli individui, rischia di semplificare eccessivamente la realtà, impedendoci di comprendere ciò che realmente accade. Occorre quindi riconoscere l’esistenza sia degli individui che delle forme, e questo ci induce ad un atteggiamento di umiltà nelle nostre analisi. Nessuno è in grado di cogliere l’immensa complessità del reale, soprattutto perché molte forme che incidono sulla società e sulla vita ci sono sconosciute.
Possiamo allora sospettare che, quando vediamo un comportamento assurdo da parte di un individuo o di un popolo, stiamo ignorando una forma invisibile che agisce in silenzio.
Potremmo mai comprendere la bellezza del Duomo di Milano se ci concentrassimo solo sui suoi mattoni o sugli atomi di cui è fatto? Certo, il Duomo non esisterebbe senza atomi, ma non si riduce ad essi.
Se dobbiamo studiare la mafia, dovremmo concentrarci sulla sua evoluzione come forma storica o sulle azioni e comportamenti dei singoli mafiosi?
A Stoccolma i mafiosi sono pochi, mentre a Palermo ce ne sono molti. Se tutto dipendesse dagli individui, sarebbe come sostenere che esista una differenza antropologica di base, una tesi che è stata smentita da oltre due secoli di studi scientifici.
La narrazione vincente rifiuta l’idea della forma: alle masse piace individuare il ‘colpevole’, non come il semplice individuo responsabile delle proprie azioni, ma come qualcuno che ha preso una decisione proveniente da una sfera della sua mente o spirito, dove nessuna forma ha avuto influenza, se non la sua volontà, che sia buona o cattiva.
Chi studia le forme, sa che non esistono individui colpevoli ma sa, altrettanto bene, che dentro gli esseri umani esiste la possibilità concreta di produrre disumanità, cinismo e persino mostruosità. Lo studio delle forme non favorisce le facili sentenze ma piuttosto il dubbio.
Ora mi fermo perché il discorso sarebbe molto lungo e ritorno al titolo di questo articolo: perché ad un certo punto noi crediamo che le società impazziscano e le singole persone facciano atti irrazionali contro i loro interessi? (Gli antichi dicevano che gli dei rendono folli coloro che vogliono distruggere).
Semplicemente perché ragioniamo in prevalenza solo in termini di individui, in termini di individualismo metodologico, crediamo che esistano solo le decisioni individuali e non riusciamo a riconoscere le forme. Non sappiamo ragionare per forme.
Nel 1973, mille parlamentari italiani votarono una legge che divenne nota come “Baby pensioni”. La legge era insostenibile e infatti fu abolita il decennio successivo, ma ci costò parecchio per moltissimi anni. Se ragioniamo in termini di individui, non possiamo fare altro che condannare quelle persone per aver votato una legge così assurda, quasi come se fossero impazzite. Tuttavia, se ragioniamo in termini di forme, ci rendiamo conto che, pur essendo assurda, quella legge aveva una sua logica e spiegazione. Una logica che non si comprende se ci limitiamo a considerare le scelte dei singoli. In realtà, è la logica della forma-partitica, che si fonda sul breve periodo del consenso elettorale, a giustificare provvedimenti di questo tipo. Ma questa spiegazione riguarda le forme, non le azioni individuali.
Le guerre mondiali, così come l’attuale elezione di Trump, resteranno fenomeni inspiegabili se non ragioniamo in termini di forme. La domanda inquietante che dobbiamo porci è questa: se ciò che accade in una società non è solo il risultato delle decisioni individuali, ma dipende anche dallo sviluppo delle forme stesse, è possibile che le decisioni più assurde, come le guerre o altre catastrofi, siano il prodotto non voluto dell’evoluzione di tali forme?
Questa domanda è inquietante, ma tutt’altro che peregrina, e ci segnala un rischio ben più grande per la società di quanto immaginiamo. “Forme e riforme” si pone queste questioni e, lungi dalla pretesa di individuare tutte le forme in gioco, rivendica questo metodo e la ricerca di forme ancora sconosciute e non indagate.
È proprio l’individuazione di queste forme che costituisce la base della politicità sociale, un approccio completamente nuovo per leggere la società, per il quale però non siamo preparati.
L’importanza di questa locuzione risiede nel fatto che essa apre a un’area dalla quale possiamo ancora coltivare qualche speranza per il futuro. Tuttavia, le riforme previste dalla politicità sociale sono grandi e difficili, a cominciare da quella che non è in agenda né tra le persone, né tra i politologi, né, tanto meno, tra i politici: il cambiamento della forma-partito, di cui nessuno parla.
Ragionando in termini di individui anziché di forme, tendiamo a concentrarci esclusivamente sulle azioni dei partiti, anziché sulla loro natura. Siamo tutti abituati a dare importanza unicamente a ciò che i partiti dicono ed eventualmente fanno, ma non a quello che sono. Ci avviciniamo a quei partiti le cui idee ci convincono maggiormente e consideriamo il voto come l’espressione normale e fisiologica della partecipazione.
Questa visione è destinata a produrre cocenti delusioni perché trascura le forme basandosi sui contenuti, quindi non riuscirà a descrivere le dinamiche complessive. Essa supporta la narrazione vincente e si definisce col termine magico “Democrazia” che riteniamo il valore più alto mai raggiunto dalle società.
Un’adeguata teoria delle forme ci mostra un’altra prospettiva: l’attuale forma-partito è una struttura intrinsecamente patologica, che, al di là delle idee che promuove e degli obiettivi che si dà, genera inevitabilmente e necessariamente effetti negativi nel medio-lungo periodo.
Questi effetti non riguardano i contenuti, cioè i programmi e i valori dei partiti, ma riguardano la forma. Ciò significa che, se anche i valori e le intenzioni di un partito fossero assolutamente validi, la patologia della forma genererebbe effetti negativi, gravi e persistenti.
La politicità sociale non si riduce alla forma-partito ma è una frontiera culturale che vogliamo offrire alle nuove generazioni, quelle che subiranno le maggiori conseguenze di ciò che le forme in vigore stanno determinando. Questo è l’impegno che forme e riforme coltiva da molti anni, un impegno che dobbiamo implementare.
Pino Polistena
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